Recensioni & passaggi:
letture di scambio al TIP Teatro di Lamezia Terme
È difficile approcciarsi ad un testo come “On the road”. Per una moltitudine di ragioni. Innanzitutto è un libro che oramai è divenuto un classico del ‘900 e su cui è stato scritto molto. Ha ricevuto innumerevoli recensioni e molte autorevoli voci, anche accademiche, si sono cimentate in saggi su di esso. Per questo, io che sono un semplice lettore, non posso avere altra pretesa che quella di dare una mia impressione sull’opera, avvalendomi di quel metodo che fu proprio di Kerouac, vale a dire la prosa spontanea.
Innanzitutto, bisogna demistificare “On the road”. K. non indica mai che la sua strada debba essere la strada di tutti, è solo il suo percorso. È un romanzo autobiografico, che non ha nessuna pretesa di voler cambiare il mondo, ma se mai di descriverlo. Di descrivere cosa egli vide dell’America, tra la fine degli anni ’40 e gli inizi dei ’50. Un’America inquieta. L’America dei margini. L’America che in pochi raccontano, o che, meglio, fino ad allora in pochi avevano raccontato. K. lo fa quasi con il metodo antropologico dell’osservazione partecipante, portavoce e documentarista di un mondo sconosciuto, quello della sub-cultura americana, fatta di lavori massacranti e mal pagati, rapporti difficili con le forze dell’ordine (spesso sopra le righe) ma anche di avanguardie, di locali bop jazz, e di gruppi afroamericani, messicani, e indios, in un Paese ancora segregazionista. E nonostante tutto non si può dire che K. fu mai un rivoluzionario.
In “On the road” e nel resto delle sue opere egli non mise mai in discussione lo status quo, seppur di certo emerga tra le righe un amore incondizionato per la genuinità dei più disadattati e per i “folli”. Lui fornisce materiale al lettore, poi sarà quest’ultimo a farsi un’idea sul sistema. È uno scrittore neutrale, non di parte, e forse anche in questo sta la sua grandezza. Egli si limita a buttare lo sguardo laddove nessuno osa farlo e non lo fa senza nessuna mediazione. Dice quello che vede, e ciò che vede è completamente esentato da giudizi moralistici. Ma anche così sarebbe limitante parlare di “On the road”. “Sulla strada” non è un semplice romanzo antropologico, o di letteratura impegnata (seppure nell’eccezione che ne abbiamo dato). “Sulla strada” è anche e soprattutto un romanzo che tratta della vita dei sue due protagonisti, Sal Paradise (Jack Kerouac), e Dean Moriarty (Neal Cassady).
È un romanzo che tratta della loro amicizia, dei loro viaggi in giro per gli Stati Uniti, fino al Mexico. È anche un romanzo esistenzialista, che si interroga su quale sia il senso della vita. Per Dean il senso della vita è essere nel momento, come in un concerto jazz, quindi un’operazione del tutto formale, priva di concetti o sostanza. E poi è sapere la COSA. Ma questa cosa non è mai definita. È qualcosa che forse solo il singolo può intuire e che naturalmente varia da soggetto a soggetto, perché ognuno ha il suo cammino. Si intravede qui il credo spirituale di Kerouac, taoista e buddista (nonostante le sue radici cattoliche, che ne influenzano l’attenzione rivolta agli ultimi della società). In tal senso il bere e le droghe possono essere un aiuto, perché avvicinano al nulla. O meglio annullano tutte quelle strutture mentali artificiose imposte dalla società mediante l’educazione e gli apparati repressivi.
Il senso del romanzo, se di senso si può parlare, è che il singolo deve cercare a tutti i costi di unificarsi al suo essere e per farlo può utilizzare vari mezzi. Il viaggio, per estraniarsi e per cercare di scrollarsi di dosso la propria ombra (che tuttavia non può mai essere seminata, infatti il ritorno è proprio di ogni viaggio, anche solo mentale…). Un altro mezzo è l’ebbrezza tramite l’uso della marijuana e dell’alcol (si pensi al filone dei poeti maledetti). Il terzo è il sesso. Le tre cose avvengono sempre di seguito nella storia e non sembra un caso. L’amore ha un ruolo apparentemente secondario in tutta la vicenda invece. Non perché esso non ci sia. Ma non appare mai qualcosa di definitivo, capace di fare mettere la testa apposto ai personaggi. E ciò per varie ragioni. Alcune di ordine materiale. La situazione economica dei protagonisti rema contro. Si pensi a Sal che innamorato della giovane messicana Terry, deve lasciarla per tornare a casa a causa di condizioni di vita al limite della sopravvivenza. Ma anche per un’inquietudine esistenziale, che impedisce legami fissi (ed è il caso soprattutto di Dean). D’altra parte se la ricerca del piacere è il mezzo attraverso il quale i due protagonisti cercano il senso delle loro esistenze, è normale che il piacere in quanto instabile, non consenta loro relazioni affettive durature.
In fine il rapporto di amicizia tra Dean e Sal. Un’amicizia condizionata dall’individualismo dei personaggi. Quindi anch’essa instabile. Soprattutto Dean in più di un’occasione abbandona l’amico in brutte situazioni. Sal, tuttavia, nonostante tutto, non lo rinnegherà mai, e rarissimi sono i giudizi appena negativi sull’amico che, dotato di un carisma eccezionale, è sempre capace di farsi perdonare. Ma ciò è comprensibile anche al di là dei sentimenti di amicizia e del fascino personale di Dean. Ci sarebbe stato On the Road senza Neal Cassady (Dean), “musa” ispiratrice e opera d’arte vivente di questo capolavoro beat? Kerouac lo sa. E noi gliene siamo grati.
Il poeta non è altro che un canale, un medium per l'infinito, che si annulla per fare posto a forze che gli sono immensamente superiori e, per certi versi, persino estranee. D'altra parte chi sono io di fronte al tutto, ma al contempo, cosa sarebbe il tutto senza di me?