“It” di Andrés Muschietti, adattamento dell’omonimo romanzo di Sthephen King dell’86, è l’ennesima occasione persa per il cinema hollywoodiano di allontanarsi almeno per un attimo dalle logiche del marketing, e creare un’opera se non fedele all’originaria, almeno di spessore analogo. Le tecniche narrative cinematografiche e dei libri non sono le stesse. Ci sono momenti che un film per essere fedele ha l’obbligo di differenziarsi.
“It” ripercorre gli ultimi film che ho visto purtroppo, Blade Runner 2049, Mother e Dunkirk. Di certo del quartetto è quello di meno valore, ma condivide con essi la cura degli effetti speciali e della fotografia, e la confusione delle idee. Si vede che nell’It di Andres Muschetti i propositi di partenza erano buoni. Già la scelta dei personaggi sembra essere stata fedele a quella del libro. William “Bill” Denbrough, Stanley “Stan” Uris, Benjamin “Ben” Hanscom, Beverly “Bev” Marsh del gruppo dei perdenti sono perfetti nella loro parte di disadattati nerd un po’ sfigati. Così come anche il bullo Henry, interpretato da Nicholas Hamilton, sembra abbastanza credibile. E come detto in precedenza c’è molta cura nella fotografia e nei costumi.
Tuttavia ciò non basta. Infatti se da un lato si può dire che alcuni difetti del film possano essere perdonabili, quali lo scendere troppo nel cliché di genere (Rob Zombie avrebbe però anche in questo molto da insegnare a Muschetti), è proprio la storia che non ha mordente. Essa è rappresentata come una successione di fenomeni lineari, il montaggio della narrazione, è assolutamente banale. Non c’è suspense, non c’è passione, poca, pochissima poesia, dovuta a qualche inquadratura particolarmente suggestiva (ad esempio la scena in cui il gruppo si tuffa da una rupe su un meraviglioso lago del Maine dove le riprese sono state in effetti girate, fedelmente al libro) e alla bravura di alcuni personaggi, su tutti quello di Beverly (interpretato dalla bravissima Sophia Lillis,di cui risentiremo parlare) e del bambino obeso Ben, dolcissimo e tenerissimo.
Cosa invece non convince per nulla è il personaggio di Pennywise, il pagliaccio. Esso ci viene mostrato innanzitutto troppo e male. Non c’è mistero e soprattutto non trasmette nulla, facendosi troppo affidamento nel film agli effetti speciali e agli jump scare (improvvise variazioni sul tema, accompagnate da un forte innalzamento della musica, per creare sorpresa e paura). Sulla storia invece ci sarebbe molto da dire. Ma sulla storia del romanzo, a cui il film ovviamente deve tutto. La storia “It” è una delle più grandi creazioni di King e dell’horror contemporaneo. Parla delle vicende che si susseguono in una piccola ma inquietante città del Maine, Derry, negli anni ‘50. Dove a distanza di 27 anni succedono cose orrende e in cui, soprattutto, i bambini muoiono.
La storia ha inizio con la meravigliosa scena della barchetta. Bill, crea una graziosa barchetta di carta per il fratellino. Egli è a letto con l’influenza. Fuori piove da giorni e le strade sono invase dall’acqua. Cosi Georgie, nel su kway giallo canarino è solo a scorrazzare per le vie di una città fantasma, inseguendo la sua fantastica barchetta. Fin quando questa non finisce in un canale di scolo, da cui emerge il viso di un simpatico clown che lo inviterà a seguirlo nelle fogne dove galleggerà con tanti altri bambini.
Con la scomparsa di Georgie ha inizio il terrore nella città di Derry. Cominciano a scomparire drammaticamente bambini, si impone il coprifuoco, ma nessun sistema sembra valido per impedire il tragico fenomeno e tutti sembrano rassegnarsi all’ineluttabilità del male, un conto da pagare, di cui nessuno vuole parlare, ma che tutti sanno esista. Verso cosa o verso chi, non se ne parla, per questo il nome “It”. Anzi gli adulti più che essere elementi protettivi verso i bambini sembrano contaminarli con la propria rabbia, ossessioni, paure o indifferenza. Da questo punto di vista “It” è un romanzo molto pessimistico. C’è tuttavia una possibilità di riscatto, ed è offerta dall’amicizia.
Rimanendo uniti ce la si può fare, questo è il messaggio di King. Per questo Muschetti non sbaglia quando dice che è un romanzo che ci ricorda come nei momenti di maggiore paura, in cui la fuga individualistica sembra essere l’unica chance, bisogna stare uniti. Perché da soli si muore. Come scopre ben presto il gruppo dei perdenti, che dall’unione troverà la forza per scacciare “It” da Derry, almeno una prima volta.
Ma “It”, Pennywise, potrebbe essere anche una metafora del potere che terrorizzando divide. Il potere che si ciba delle paure più inconfessabili della gente, per creare fantasmi che poi si realizzano veramente e possono uccidere per davvero (si pensi al terrorismo).”It” insomma è una metafora del male e se è anche vero che il film solo parzialmente riesce, se non altro ha il merito di farci venire di nuovo voglia di rileggere questa pietra preziosa, che travalica il genere, per inserirsi di diritto nei nuovi classici del ‘900.
Il poeta non è altro che un canale, un medium per l'infinito, che si annulla per fare posto a forze che gli sono immensamente superiori e, per certi versi, persino estranee. D'altra parte chi sono io di fronte al tutto, ma al contempo, cosa sarebbe il tutto senza di me?