Sull’anziana età, ovvero, l’ultima generazione di vegliardi

Ogni tanto mi piace parlare con gli anziani. Anch’io un giorno se Dio o il Fato lo vorrà lo sarò. Essi hanno sempre tanto da insegnare, e basterebbe prestargli ascolto. Gli anziani sono stati giovani come me, e forse non avrebbero mai immaginato di arrivare anch’essi come i loro nonni ad una certa età. La vita è lunga e corta al contempo. Incredibilmente e lentamente ti ritrovi all’improvviso ad avere quaranta, poi cinquanta e infine ottant’anni. Come per un incantesimo non ci rendiamo conto dello scorrere del tempo se non quando esso è già trascorso. Ciò potrebbe sembrare un inganno, frutto di un Dio incantatore, ma forse è una benedizione. Non sarebbe bello percepire le nostre cellule invecchiare per poi morire. Così questa illusione di eterno presente ci da la possibilità di vivere incoscienti dell’essere dei prodotti a scadenza.

Ma dicevo degli anziani. Gli anziani sono certo molto diversi tra loro ma, come i bambini, sono per lo più dolci e bisognosi d’affetto. Forse come tutti, ma a differenza dei molti non hanno più in sé quel carico di orgoglio che rende difficile amare chicchessia. Essi sono il più delle volte sereni e semplici. Si dedicano alle loro piccole attività e non si preoccupano troppo del domani, di quando non ci saranno più. Il loro domani è molto diverso dal nostro. Infatti, se è vero che tutti moriremo, per loro non c’è davvero scampo. Cinque, dieci, quindici anni dopo gli ottanta sono la norma. Loro lo sanno ma vanno avanti. Il loro unico dispiacere è quello di non poter fare per quanto vogliono, perché la volontà rimane immutata, ma è il corpo a non obbedire più come un tempo. Ma si accontentano dicendo: «n’amu de accuntentare».

 

Nonni, zii, di tutte le età io vi ammiro e vi rispetto. Io che sono giovane vedo in voi una forza che mi è sconosciuta, una forza serena, una brezza lieve ma costante che vi traghetta serenamente e vi allevia ogni tormento. Io che sono giovane, vivo tra bonacce e burrasche. Forze incostanti, così come il mio volere. Voi sereni, dagli occhi operati di cataratta, i cui cristalli brillano sotto le luci del focolare, di cui siete da secoli custodi, non conosco la costanza delle vostre generazioni che hanno costruito la terra su cui oggi cammino. È a voi vegliardi che dobbiamo tutto, anche la vita. Voi uomini di altri tempi avete selezionato gli alberi di cui oggi mangiamo i frutti. Avete ammansito bestie. Voi siete i rappresentanti di un mondo agreste e pastorale che oggi non esiste più, se non come scimmiottatura di quel che fu.

Quando recupereremo la vostra grazia, la vostra serenità, la vostra volontà, la vostra perseveranza, la vostra forza, corrotti da un progresso materiale che ci ha infiacchito il corpo e le menti? Forse, come diceva Pasolini già negli anni sessanta, tutto quel che fu è finito per sempre. È avvenuta la fine di un mondo che non ha partorito un mondo migliore e voi siete gli ultimi esemplari, di una specie umana ormai estinta. Così mi limito a osservare il sorriso, e la cadenza un po’ lamentosa del vostro parlare, di chi sa che in realtà i vecchi siamo noi, giovani di un’epoca nata vecchia, disillusa, davvero ipocrita. Non certo come voi, bambini belli, in un corpo che non risponde, macchina usurata, eppure dolce, tenera, per niente contaminata. È a voi che dedico questa mia breve riflessione, a voi che di certo non la leggerete. A voi che forse nemmeno importa. Sicuri, della vostra forza.

 

Il poeta non è altro che un canale, un medium per l'infinito, che si annulla per fare posto a forze che gli sono immensamente superiori e, per certi versi, persino estranee. D'altra parte chi sono io di fronte al tutto, ma al contempo, cosa sarebbe il tutto senza di me?

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