Ricostruire l’identità. Il «dramma sociale» del colonialismo e la performance come azione riparatrice. Il caso di Christian Botale Molebo

KOK-LAT-VIL_©_Matija-Lukić          È sempre arduo scrivere di un fenomeno come il colonialismo. Non solo perché si tratta di un processo storico incredibilmente complesso nella sua cronologia assoluta, nel suo contesto geografico e geopolitico, ma anche, e soprattutto, perché gli echi di una situazione coloniale sono ancora percepibili oggi e ben lungi dal non determinare lo sviluppo (politico, economico, sociale, culturale) di gran parte del mondo, soprattutto intrecciandosi a problematiche che solo a occhi ingenui potrebbero sembrare nuove e senza connessioni con il passato (la “crisi” migratoria fra tutte). A un processo storico come il colonialismo – storico ma assolutamente non storicizzato – inoltre, risulta difficile approcciarsi particolarmente per il nostro sguardo che può tradire ancora la presenza di filtri eurocentrici. Agli albori di quella che può definirsi una vera e propria nuova rivoluzione antirazzista (al motto di “Black Lives Matter), per lo sviluppo della quale e per una sua migliore definizione non siamo forse ancora pronti, infatti, molta carta stampata, giornali, notiziari, faticano nell’interpretare fatti sociali, politici, religiosi con la giusta distanza dello studioso. Non che si possa pretenderlo, d’altronde, da questi narratori del presente. Tuttavia, forse non è necessario essere esperti di storia, magari di storia coloniale, delle migrazioni, o esperti in geopolitica, per rendersi conto che leggere i fenomeni e gli avvenimenti del presente con chiavi di lettura tipicamente occidentali sia pregiudizievole di per sé e non aiuti mai davvero a districarsi in problematiche molto intricate. Per non parlare delle migliaia, anzi centinaia di migliaia, di volumi impolverati nelle nostre biblioteche d’Europa che parlano ancora linguaggi prettamente razzisti e ragionano ancora in termini neocoloniali. Saranno considerati “figli” dei loro tempi, testimonianze importanti, per uno storico, di contesti a noi relativamente lontani. Relativamente, perché si parla di appena qualche generazione fa. Saggistica, anche della più impegnata, di anni Sessanta, Settanta, Ottanta, reportages, articoli di giornale e riviste. Anche le nostre consapevolezze risulteranno obsolete e superate tra trent’anni? Che sia positiva o negativa la risposta, di certo c’è che gli anni presenti risultano decisamente cruciali. Forse l’Occidente ha perlomeno compreso di dover fare i conti con il proprio passato, coloniale e non solo.

Sulla soglia del mondo. Tra memoria familiare e memoria collettiva

«Un limen è una soglia o un davanzale, una striscia sottile né dentro né fuori da un palazzo o da una stanza che unisce uno spazio a un altro, una via di passaggio tra luoghi diversi più che un luogo in sé»[1]

È questa la definizione di “soglia” che ci ha suggerito Richard Schechner, teorico della performance che negli ultimi decenni ha saputo coniugare le classiche istanze di taglio antropologico di Victor Turner all’esigenza di una teoria generale della performance. Lo stesso studioso americano ricorda la celebre lezione di Van Gennep sui riti di passaggio e su una loro partizione in tre fasi precise. L’antropologo francese, infatti «propose una struttura in tre fasi dell’azione-rituale: preliminale, liminale e post-liminale»[2] dimostrando «come la vita fosse una successione di passaggi da una fase a un’altra e come ogni passo lungo questa traiettoria fosse contrassegnato dal rituale»[3]. Riprenderò più avanti il concetto di performatività. Qui voglio solo sottolineare quanto, al di là di questo campo specifico, con “soglia” possiamo intendere una chiara categoria antropologica che ci viene in soccorso per meglio comprendere una certa visione del mondo[4]. Soglia come limen, dunque, come confine, come un luogo non ben identificato, piuttosto che un non-luogo, un confine che può essere geografico ma, molto più spesso, culturale, sociale, religioso[5]. La soglia ha strettamente a che fare con la mobilità e la mobilità è indissolubilmente legata, ad esempio, ai fenomeni migratori, anche se questi non ne rappresentano che una piccola parte.
Sulla soglia, o comunque tra Nord e Sud del mondo, operano numerosi artisti di origine africana che oggi sono impegnati in prima linea nel rimettere in discussione il passato – e il presente? – coloniale dei loro luoghi. Voglio occuparmi di Christian Botale Molebo come caso esemplare ed esemplificativo. Nato nel 1980 a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, quando questa era ancora chiamata Zaire o Congo belga, vive ora a Strasburgo dove si occupa di performance e scultura (vedremo come i due generi dialogheranno tra loro). Preferisce definirsi artista contemporaneo piuttosto che artista africano, chiarendo subito le sue intenzioni universali e cosmopolite, pure se l’intera sua ricerca artistica ruota proprio attorno alla storia del suo paese d’origine e, in maniera più specifica, a quella della sua famiglia. Il suo, anzi, è uno stare in equilibrio, un altro limen, tra una memoria familiare e una memoria collettiva.
Benché non fosse il primogenito della sua famiglia, Botale è stato investito “ufficialmente” da suo padre come continuatore di una ricerca che definire solo storica sarebbe riduttivo. Il testimone consegnatogli dal padre, infatti, è quello di un uomo perfettamente consapevole del suo tempo e del tempo alle sue spalle. Da meticcio[6], discendente di un missionario belga, il padre di Christian aveva riunito migliaia di volumi in una biblioteca personale, sfruttando lo spazio domestico, dunque, per trasmettere alla famiglia un senso preciso della storia e della storia del suo paese. La svolta avviene alla morte di questi: Christian, insieme a sua madre, scopre un grosso diario del padre, dodici quaderni che coprivano almeno due decenni di vita. In essi, e in una sorta di testamento “spirituale”, Christian riceveva in modo ufficiale il compito di continuare le orme di suo padre in una vera e propria lotta per la riconquista di un’identità congolese. Un’identità che guardasse all’indietro, alle cause, allo sviluppo e alle ipocrisie del dominio coloniale, prima di rivolgersi in avanti, verso una riconquista dei diritti perduti. E non si tratta di una semplice consapevolezza sociopolitica, no. La raffinatezza del messaggio e dell’obiettivo del padre di Botale stava nell’aver compreso quanto fra le tappe di questa difficile ridefinizione identitaria ce ne fossero alcune di stampo prettamente culturale e artistico. La biblioteca di famiglia, in effetti, era costituita per lo più da libri di storia e di storia dell’arte. E poche cose possono star bene insieme come una biblioteca, la memoria e la sublime arte della narrazione:

«Ciò che la memoria ha in comune con l’arte è la tendenza a selezionare, è il gusto per il dettaglio. […] La memoria contiene proprio i dettagli, non il quadro d’insieme […] La convinzione di ricordare il tutto in modo generale, la convinzione stessa che permette alla specie di continuare a vivere è priva di fondamento. La memoria assomiglia essenzialmente a una biblioteca dove regna il disordine alfabetico e dove non esiste l’opera completa di nessuno». (Josif Aleksandrovič Brodskij)

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Narrare le cose. Narrare con le cose

Memoria familiare e memoria collettiva, dunque, coincidono perfettamente nel bagaglio delle esperienze e delle consapevolezze che Botale si ritrova trasmesse da suo padre. Punto nodale di questo passaggio di consegne non può che essere il senso della narrazione, di cui l’artista si serve nelle sue opere d’arte visiva e, soprattutto, nelle sue performances. Un post Facebook della Centrale FIES art work space lo presenta così: «Nelle sue opere racconta le storie del periodo coloniale del Congo Belga, dello Stato Libero del Congo e dello Zaire sotto la dittatura di Mobutu, tutte trasmesse dal padre per via orale»[7]. Ora, al di là di quanto le narrazioni del padre possano essere rilevanti nell’opera di Botale, ciò su cui voglio porre qui l’accento è lo stretto legame che sussiste tra la narrazione e la tradizione orale. Se è vero che per tradizione orale possiamo intendere un «insieme di forme espressive diverse per contenuto e per contestualizzazione»[8] è altrettanto vero che il nucleo di una tradizione orale non può che vertere nella potenza della “parola”, qui nel senso più ampio possibile. La parola che sta anche dietro al gesto, all’espressione del corpo, al semplice stare al mondo: la parola che dà la dimensione sociale di chi parla e che ribadisce l’ordine della comunità. Ed è solo tramite la comunità che può esprimersi una vera e propria tradizione orale, pure se essa si declina tramite il racconto familiare, magari tra padre e figlio come nel caso di Botale. Lo disse chiaramente l’antropologo Jan Vansina, quando per il concetto di tradizione diede la definizione di «un fatto conosciuto e ripetuto di generazione in generazione sotto forma di narrazione da molti rappresentanti di una comunità. Solo il perdurare del tempo e la conseguente approvazione della comunità trasformeranno in tradizione tutte quelle forme di espressione orale che vengono trasmesse di bocca in bocca, di padre in figlio nelle riunioni collettive e nelle manifestazioni rituali»[9].
Ma le storie narrate da Botale nelle sue opere e nelle sue performances non sono storie mitiche di un lontano passato leggendario (pur mantenendo, com’è ovvio, tratti e simbologie di una tradizione spirituale e tribale ben precisa). Si tratta, invece, della morsa coloniale con il quale il Belgio ha stretto per un secolo il cuore dell’Africa subsahariana. Possiamo, con questo, determinare meglio il carattere della memoria collettiva del Congo? In altre parole, possiamo dire che tramite la sua arte Christian Botale ha già “tradizionalizzato” un passato così vicino e così turbolento? Probabilmente sì e no. Se le storie riguardanti lo sfruttamento coloniale, la mitica e improvvisa rivoluzione di Lumumba – ormai praticamente un martire “canonizzato” di cui ancora si attende il ritorno[10] –, la dittatura di Mobutu, diventano, tramite l’espressione artistica, patrimonio di una collettività più ampia, esse devono ancora assolvere al compito fondamentale di cui si è fatto cenno nella premessa di questo testo: abbattere l’eurocentrismo europeo e permettere, in anni in cui ancora il neocolonialismo economico imperversa e depreda ricchezze e risorse dalla culla dell’umanità, che i paesi colonizzati e sfruttati per più di un secolo possano ritrovare un’integrità perduta e ricostruire una nuova identità.
Nelle sue narrazioni performative, o comunque in tutta la sua espressione artistica, Botale fa ampio uso di sculture realizzate da lui stesso. È un rapporto con gli oggetti sulla scena più profondo di quanto si possa cogliere a primo acchito e che sicuramente merita qualche altra parola. Già Schechner ammette che occuparsi di un oggetto, lavorarci o produrlo «significa investigare cosa quell’oggetto fa, come interagisce con altri oggetti o esseri e come si relaziona ad altri oggetti o cose»[11]. Ed è proprio un perfetto rapporto di tipo dialogico quello che sussiste tra l’artista e i suoi manufatti. Già nei primi anni a Strasburgo, Botale realizza sculture di legno che utilizza per le sue installazioni. Oggetti che richiamano il passato africano, che riguardano da vicino ora la storia familiare di Botale, ora la storia collettiva di un intero paese. Oggetti coreografici nei quali si riversa un vero e proprio soffio vitale di animistica memoria. Non feticci inanimati come mera decorazione scenografica, ma veri e propri oggetti vitali,  soggettivati in senso quasi aurtadiano[12], che riescono a dialogare con il performer in maniera intimistica e spirituale e che pervadono anche la quotidianità del loro creatore: come nel caso di numerose statuine ricoperte di chiodi con i quali Botale rappresenta diversi momenti del vissuto, crisi di vita ecc.[13] È insomma al tempo stesso un narrare le cose e narrare con le cose.

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La missione più grande: la restituzione di un patrimonio artistico

Come accennato, il punto forse più alto dell’intera “missione” trasmessa a Botale da suo padre è probabilmente quello che riguarda in senso stretto il patrimonio artistico del Congo e il suo destino. Al solito, se il tema delle depredazioni artistiche si può ormai definire tradizionale per l’Occidente – basti ricordare l’epoca della rivoluzione francese e la pietra miliare di Quatremère de Quincy[14] – non è possibile dire lo stesso per quel che concerne i patrimoni artistici dell’Africa, dispersi, quando non trafugati, o comunque perfettamente decontestualizzati e asserviti alle dipendenze dei paesi colonizzatori per arricchirne i tanti musei etnografici o, direttamente, musei coloniali.
È infatti davanti al celebre Royal Museum for Central Africa di Tervuren[15], nel Brabante Fiammingo, che Botale fa sua una volta per tutte la missione trasmessagli dal padre. Davanti alle enormi collezioni di maschere e statuette-feticcio, di animali imbalsamati, oggetti in legno, strumenti musicali, lo sbigottimento si tramuta in azione riparatrice. Sulla storia di questo museo e sulle vicissitudini tra Belgio e Congo negli ultimi decenni non mi dilungherò. Un’ottima sintesi è stata di recente presentata da Donatien Dibwe dia Mwembu, nel già citato dossier di «Africa & Mediterraneo» (n. 90/2019), con l’accento posto tanto sui diversi contesti storici in cui milioni di manufatti sono stati depredati nel Congo belga[16] quanto sull’attuale stato dell’arte in termini di restituzioni e dialoghi politici[17]. Inutile ripetere che si è ancora molto indietro in termini di restituzioni effettive, pure se già nel 1970 l’Unesco firmava una convenzione contro l’esportazione illecita di beni culturali (ma senza valore retrospettivo) e si cominciava ad attuare qualche prima restituzione. Anche le iniziative più recenti, per quanto possano nascere da intenzioni migliori, faticano e faticheranno a imporsi come decisive[18]. Attualmente, Tervuren sta procedendo con un grosso lavoro di inventariazione e di schedatura, volto quantomeno a identificare ogni singolo reperto e a cercare di ricostruirne la storia (se rubato, saccheggiato, donato, acquistato ecc.). Nel frattempo, però, il Museo Nazionale di Kinshasa prova a ricostruirsi e continua ad attendere ciò che gli spetta di diritto[19].
È da questa complicata traccia e dalla consapevolezza, come dicevo, di dover trasformare l’azione in azione riparatrice, che Botale ha avviato l’idea del progetto “Anvers a l’Envers[20]. Una piroga lunga 11 metri, realizzata da Botale, compirà un simbolico viaggio “all’inverso”, cioè di ritorno in madrepatria, da Bruxelles a Tervuren, da Tervuren ad Anversa e da qui per l’Africa. Gli undici metri della piroga saranno occupato da altrettante sculture create appositamente. Un viaggio intimo e universale allo stesso tempo, pensato per i dieci anni dall’arrivo di Botale in Francia (giunto nel 2009). Attualmente l’artista è in attesa di finanziamenti per il progetto, ma intanto ha già percorso diverse tappe con alcune performance significative e provocatorie, come “Extrait Du Retrait” proprio davanti al Museo di Tervuren, nel dicembre 2018[21].

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Il riscatto della performance. Ricostruire un’identità

«Le performance segnano le identità, piegano il tempo, riconfigurano e adornano i corpi, raccontano storie. Le performance – artistiche, rituali e della vita quotidiana – sono “comportamenti recuperati”, azioni che prevedono una preparazione accurata e un periodo di prova»[22]

È chiaro che la restituzione, effettiva o simbolica che sia, di un patrimonio artistico collettivo si carichi qui di significati ben precisi. Come già detto a proposito dell’idea di memoria e della coincidenza, in Botale, di memoria familiare e memoria collettiva, anche qui si procede dal singolo al collettivo: la performance aiuta l’artista a narrare sé stesso e a narrare la sua madrepatria, a mettere in discussione definitivamente il passato coloniale belga e, forse più d’ogni altra cosa, gli permette di universalizzare il suo grido di denuncia. La stessa denuncia di cui già suo padre era perfettamente consapevole: tutta l’impresa coloniale non era stata altro che una violazione perenne della dignità e dell’identità dei congolesi. In questi termini, l’atto di restituzione coincide con un atto di semi-riparazione. Un atto dovuto e che, forse, nemmeno basta a sanare i traumi del passato. Botale sottolinea con convinzione i concetti chiave che debbono trasformarsi in realtà concreta per la vita di tutti i congolesi: dignità, libertà e integrità. Sul concetto di integrità, soprattutto, visto come «una condizione necessaria per essere riconosciuti come “cittadini” nella società globale»[23] e come «concetto chiave che definisce i singoli processi e mobilità collettiva ed emigrazione»[24].
Per chiudere da dove si era cominciato, vorrei sottolineare quanto i tanti concetti finora sfiorati, l’identità e la memoria, individuale e collettiva, il senso d’appartenenza, la liminalità e la soglia, siano tutti perfettamente correlati con l’azione performativa, anzi, per ricordare ancora le importanti lezioni di Turner e di Schechner, al concetto stesso di performatività: «Egli [Turner] insegnò che un processo dinamico e continuo lega il comportamento performativo – arte, sport, rito, gioco – alla struttura sociale ed etica, cioè il modo in cui la gente giudica e organizza la propria vita e determina i valori individuali e di gruppo»[25]. Ma, più approfonditamente, se per Turner la performance ha una sua origine direttamente da ciò che egli chiamò con successo “dramma sociale”[26], potremmo usare questa idea come chiave di lettura per quel dramma sociale e collettivo che fu il colonialismo? Ogni dramma sociale, secondo l’antropologo, segue quattro fasi ben distinte: 1) una prima fase di rottura dei normali rapporti sociali; 2) una seconda fase di “crisi” pubblica; 3) un’azione riparatrice che provi a ricomporre l’ordine sconvolto; 4) una fase finale in cui avviene la reintegrazione di un gruppo sociale oppure, al contrario, la legittimazione di una rottura ormai insanabile, uno scisma effettivo. Secondo Turner, i principali generi di performance culturale (qui si possono intendere i rituali, i giochi, ma anche il teatro o il cinema) «non solo hanno origine nel dramma sociale ma da esso continuano a trarre significato e forza»          [27]. Benché i toni siano universalistici e, forse, troppo ottimistici nel pensare di afferrare una teoria generale della performance, merito di Turner è proprio quello di aver messo in relazione l’idea della performance con un’identità collettiva e sociale[28]. Tremendamente affascinante è, infine, il giudizio che Turner dà dell’artista creativo quasi come unico riparatore delle lacerazioni sociali. Un gruppo sociale dev’essere assolutamente onesto con sé stesso, ma di un’onestà che è tipica e “suprema” dell’artista creativo «che nelle sue rappresentazioni sulla scena, nei libri, nei quadri, nel marmo, nella musica, o nelle torri e nelle case, si riserva il privilegio di vedere diritto ciò che tutte le culture costruiscono storto»[29].

Questo breve excursus vuole essere una semplice descrizione dell’attività artistica di un performer congolese, Christian Botale Molebo, coniugata però con il suo contesto sociale e antropologico. Con il titolo “ricostruire l’identità” non ho voluto fare altro che sottolineare dal principio quello che è l’afflato e lo spirito comunicativo che un’opera come la sua può trasmettere, ad esempio, a noi europei che, come detto più volte, con il nostro passato coloniale e il nostro presente neocoloniale abbiamo ancora molti conti in sospeso. Non mi risulta necessario, in ultima sede, approfondire o chiarire il concetto di “identità” in chiave antropologica. Essa è qui concepita unicamente come “sentimento dello stare al mondo”. Ben più importante è ribadire quanto con l’esempio di Botale e della sua arte si riesca a cogliere la profonda connessione tra identità individuale e identità collettiva, similmente che per il concetto di memoria. Come detto il suo è solo un caso esemplificativo: sono numerosi gli artisti africani, della diaspora e non, che faticano a trovare spazi e modi di espressione. Tra i tanti, però, si è voluto qui dare particolarmente attenzione alla performance come azione liberatrice e riparatrice. Per rispondere al quesito del paragrafo precedente: siamo probabilmente più che maturi per considerare il passato coloniale e il presente neocoloniale come veri e propri “drammi sociali”. Infatti, non era mia intenzione richiamare l’esempio di Victor Turner unicamente per il suo fondamentale contributo nell’ambito dell’antropologia della performance, bensì, soprattutto per questo chiaro e universalizzante concetto contro il quale, probabilmente, proviamo un po’ tutti, a modo nostro, a resistere. Tutto sommato, se in maniera schechneriana ci ricordiamo che “tutto è performance” non credo di proporre un’idea troppo decontestualizzante affermando che tra i tanti “drammi sociali” che l’uomo si è trovato costretto ad affrontare, quello dei domini coloniali – che sono sempre domini umani, ancorché economici, politici, culturali ecc. – è sicuramente uno dei più difficili da risanare. Forse si è trattato dell’ennesimo e doloroso rito di passaggio che l’umanità, dopotutto, dovrebbe ormai esser pronta a vincere e a superare.

[su_spoiler title=”Note”][1] Schechner 2018, p. 134.
[2] Schechner 2018, p. 119.
[3] Ibidem
[4] Cfr. Quaretta 2019, p. 13 che, con altri, ha dato il suo contributo al dossier speciale di «Africa e Mediterraneo» dedicato proprio a “Vivre sur le seuil”: «La “soglia” è una nozione che ha una lunga tradizione teorico-metodologica nelle scienze sociali. Il suo potere euristico ci ha permesso di rimanere fedeli alla natura transdisciplinare del progetto proponendo applicazioni comparative di questo strumento teorico-metodologico».
[5] Vale la pena ricordare anche l’idea dello stesso Turner sulla liminalità: «Le entità liminali non sono né qui né lì; esse si trovano perfettamente nel mezzo delle posizioni assegnate e strutturate dalla legge, dalle consuetudini, dalle convenzioni e dai cerimoniali. […] la liminalità è frequentemente paragonata alla morte, al regresso all’utero materno, all’invisibilità, all’oscurità, alla selvatichezza e all’eclisse del sole e della luna»: Turner 1969 in Schechner 2018, p. 134.
[6] Si ricordi che il meticciato in pieno periodo coloniale era considerato un’aberrazione vera e propria. Il padre di Christian, in senso stretto, “incarnava” la storia coloniale nel suo stesso corpo e questo, probabilmente, non ha fatto che aumentare nel figlio la consapevolezza di un’appartenenza più larga rispetto a quella ristretta nel Congo.
[7] https://www.facebook.com/centralefiesartworkspace/photos/christian-botale-molebo-nato-a-kinshasa-zaire-nel-1980-%C3%A8-uno-dei-12-artisti-di-l/1879823832078908/
[8] Aime 2017, p. VII
[9] Ibidem
[10] Su Lumumba e, in particolare, sul simbolismo della sua figura in molta pittura popolare congolese, cfr. Carbone – Giordano – dia Mwembu – Jewsiewicki 2011.
[11] Schechner 2018, p. 74.
[12] Nel suo primo Manifesto del Teatro della Crudeltà ecco cosa Artaud indica a proposito dell’uso degli oggetti sulla scena: «Manichini, maschere enormi, oggetti di straordinarie proporzioni avranno la stessa importanza delle immagini verbali, sottolineeranno l’aspetto concreto di ogni immagine e di ogni espressione – mentre le cose che esigono di solito una raffigurazione oggettiva saranno per contro dissimulate o fatte addirittura sparire»: Artaud 1968, p. 212.
[13] «les sculptures sont un objet de motivation, objet de vie auquel je parle de mes problèmes […] à chaque fois je lui ajoute un clou avec de mots sur mes problèmes personnels que je traverse pour avancer et je pense que ça m’avance et à chaque fois je lui ajoute un clou et je parle de mon retour au Congo avec cette idée de restituer cette sculpture à la génération nouvelle et je la regarde dans la maison et je lui parle et que pour moi c’est au centre et que ça protège la maison, c’est ça qui m’intéresse»: Giordano 2019, p. 41.
[14] Tra i tanti lavori, segnalo principalmente Pommier 2011.
[15] http://www.africamuseum.be
[16] Tra i contesti più disparati voglio ricordare particolarmente le innumerevoli opere distrutte: «Così, per esempio, alcune opere d’arte, soprattutto le statuette-feticcio (bwanga, nkisi, nkishi, dawa, etc.), considerate diaboliche, erano condannate alla distruzione. In questo contesto, numerose opere d’arte sono state bruciate»: dia Mwembu 2019, p. 29.
[17] Richieste di restituzioni risalgono già agli anni Cinquanta e Sessanta: «La prima richiesta (1955) venne dagli intellettuali congolesi che, all’interno del “Manifesto della coscienza africana”, si soffermarono sulla restituzione delle opere d’arte congolesi. Successivamente, nel 1960, in occasione della tavola rotonda economica, i politici congolesi espressero il desiderio che gli oggetti esposti al museo di Tervuren fossero divisi tra Belgio e Congo […] La quarta e la quinta richiesta furono espresse ufficialmente dal presidente Mobutu»: dia Mwembu 2019, pp. 29-30.
[18] «Poco prima della riapertura del Museo reale di Tervuren, varie manifestazioni culturali riguardo alla restituzione delle opere d’arte furono organizzate a Kinshasa nell’ottobre 2018 e in Belgio nel dicembre 2018 (un dibattito organizzato dalla RTBF al museo di Tervuren il 5 dicembre 2018 e un laboratorio al Bozar di Bruxelles l’11 dicembre 2018, che raggruppava una delegazione di Congolesi venuti dalla RDC – Kinshasa et Lubumbashi –, una delegazione dal museo di Tervuren e membri della diaspora congolese»: dia Mwembu 2019, p. 30
[19] https://www.infoafrica.it/2019/11/26/inaugurato-a-kinshasa-il-museo-nazionale/
[20] https://vimeo.com/236274633
[21] https://www.kisskissbankbank.com/fr/projects/anvers-a-l-envers
[22] Goffman 1959 in Schechner 2018, p. 72.
[23] Giordano 2019, p. 40.
[24] Ibidem
[25] Turner 1993, p. 56, prefazione di Schechner.
[26] È significativo ricordare che Turner giunse a questa sua teoria dopo anni di studio e osservazione etnologica sul campo, in particolar modo tra gli Ndembu dello Zambia in cui: «ogni racconto, Nsang’u o Kaheka, può essere messo in relazione con qualche situazione critica di più ampie dimensioni che coinvolge la vita del villaggio: un “dramma sociale”. Se da una parte, a causa della presenza di uno schema processuale che mira ad identificare segnali iniziali e terminali, il “dramma sociale” potrebbe essere considerato come una specie di “narrazione”, Turner si è al contrario persuaso “che esso è in realtà un’unità spontanea del processo sociale e un fatto di cui tutti hanno esperienza, in ogni società umana”»: Deriu 1988, pp. 151-152.
[27] Turner 1993, p. 78.
[28] «La mia tesi è che i drammi sociali sono la “materia grezza” da cui, con lo svilupparsi delle società per dimensioni e complessità, viene a essere creato il teatro e da cui esso viene continuamente rigenerato. Sostengo infatti che la forma del dramma sociale è realmente universale, sebbene possa essere elaborata culturalmente in modi diversi nelle diverse società»: Turner 1993, p. 193.
[29] Turner 1993, p. 217. [/su_spoiler]

[su_spoiler title=”Bibliografia”]Artaud 1968 = Artaud, A., Il teatro e il suo doppio, trad. it., Einaudi, Torino 1968.

Deriu 1988 = Deriu, F., Il paradigma teatrale. Teoria della performance e scienze sociali, Bulzoni, Roma 1988.

Turner 1993 = Turner, V., Antropologia della performance, trad. it., Il Mulino, Bologna 1993.

Pommier 2011 = Pommier, E., Più antichi della luna. Studi su J.J.Winckelmann e A.Ch. Quatremère de Quincy, trad. it., Minerva Edizioni, Bologna 2011.

Carbone – Giordano – dia Mwembu – Jewsiewicki 2011 = L’eredità di Lumumba. L’indipendenza del Congo nella pittura popolare, a cura di Carlo Carbone, Rosario Giordano, Donatien Dibwe dia Mwembu, Bogumil Jewsiewicki, Gangemi, Roma 2011.

Aime 2017 = Aime, M., Il soffio degli antenati. Immagini e proverbi africani, Einaudi, Torino 2017.

Schechner 2018 = Schechner, R., Introduzione ai performance studies, trad. it., Cue Press, Imola 2018.

dia Mwembu 2019 = dia Mwembu, Il dibattito sulla restituzione delle opere d’arte tra Belgio e RDC in «Africa e Mediterraneo» 90 (2019), pp. 26-33.

Giordano 2019 = Giordano, R., Mots et images. Récits de vie d’artistes congolais de la diaspora in «Africa e Mediterraneo» 90 (2019), pp. 34-43.

Quaretta 2019 = Quaretta, E., Tracce di un percorso di ricerca in «Africa e Mediterraneo» 90 (2019), pp. 10-15.[/su_spoiler]

Vive a Lamezia Terme, legge e scrive dove gli capita. A tempo perso si è laureato in Beni Culturali e in Scienze Storiche, a tempo perso gestisce il blog Manifest e a tempo perso è responsabile della Biblioteca Galleggiante dello Spettacolo del TIP Teatro. Di fatto, non ha mai tempo. Ha esordito nel 2023 con il romanzo "Al di là delle dune" (A&B)

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