Cara nonna, ti voglio bene ma “il posto fisso non lo voglio”

 

Cara nonna,
ti voglio tanto bene ma io il posto statale non lo voglio!

(La nonna è metafora dolce e malinconica di questo presente) 

Sembra un titolo ironico e da barzelletta ma non lo è affatto. Esprime realmente lo stato delle cose e dei sentimenti che la maggior parte dei 30 enni vivono, contro quella fetta di generazioni del passato che pure ci hanno tanto amato ma che oggi ci demonizza, ci ammazza i sogni, vive nel mare del pessimismo e dentro ci vuol buttare anche noi.

Noi che non abbiamo alcuna voglia di lavorare? O noi che la voglia ce l’abbiamo ma ci troviamo a vivere una epoca complessa e di piena crisi eppure non ci lamentiamo? Che siamo abituati a sentirci cosmopoliti sebbene continuiamo a studiare le nostre radici, che dalle radici dell’albero o dai piedi stanchi di chi ha fatto tanta fatica finiamo per commuoverci e ne facciamo oggetto di studio antropologico, oppure tiriamo su qualche verso di poesia in dialetto? Che di questo, no, noi non ci vergogniamo affatto e per questo sputiamo sopra all’idea di assistenzialismo che ancora governa le menti e i sistemi più corrotti di questo paese?

Noi che il posto statale, che è sempre più difficile trovarlo, poi neanche lo vogliamo. Perché siamo abituati ad essere multitasking, lo sappiamo che non dura mai niente e che occorre saper fare un po’ di tutto, noi che nella ricerca del tutto sappiamo con lentezza specializzarci, credere ancora nelle nostre passioni, e per questo pedaliamo più veloce, ma in silenzio, prendiamo pullman a poco prezzo che ci portano a viaggiare, noi che le nostre valigie sono aperte e richiuse un giorno si e un giorno no, noi che alla fine non vogliamo che vivere onestamente. Che andiamo sempre di fretta e non ci fermiamo. Mai.

Ci siamo solo accorti che siamo cresciuti troppo in velocemente e nel mentre abbiamo fatto tante cose, senza dimenticare mai dei colori di un tramonto sotto il Monte Mancuso, delle reti di interi ulivi in autunno o delle olive da ammaccare nello stesso autunno. Nel mentre abbiamo capito che i discorsi di “mia nonna” sono pieni d’amore ma non ci riguardano più di tanto, purtroppo, perché la verità è che non ci conosciamo abbastanza, che non abbiamo saputo trasmettere col tempo i cambiamenti che stanno in mezzo a noi, e non abbiamo voluto prenderne atto, ma in silenzio continuiamo a ricambiare l’amore pur con dentro al cuore la tristezza, l’abito nero, la disperazione e la tragedia. Che queste cose le sappiamo bene anche noi, ma vogliamo continuare a immaginare pure nuovi colori.

Il posto statale non lo vogliamo perché non ne siamo più attori da molto tempo di questa grande scena della bugia teatrale italiana, ma della dignità vogliamo ricordarcene e finché c’è ci siamo pure noi da qualche parte, noi con le nostre aspirazioni che nulla hanno a che fare con le grandi cifre di uno stipendio fisso al mese ma intanto possiamo insegnare a qualcun altro (i nostri figli?) cosa significa guadagnarsi il pane con coerenza, sacrificio, e lealtà.

Valeria D'Agostino è giornalista pubblicista, curiosa del bello, amante della natura e della poesia. Ha contribuito a realizzare il Tip Teatro di Lamezia Terme, già ufficio stampa di Scenari Visibili, blogger sin dagli esordi di Manifest Blog. Ha lavorato per Il Lametino, attualmente corrispondente esterna della Gazzetta del Sud. Nell'ambito della scrittura giornalistica ha prediletto un interesse particolare per le tematiche sociali, quali in primis la sanità e l'ambiente, culturali, e artistiche. Si divide fra Lamezia Terme e Longobardi, costa tirrenica cosentina dove si occupa di turismo e agricoltura biologica. "Un buon modo per dare concretezza al concetto di fuga".

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